STORIE DI FARI * Il Faro dell'Isola di Cavoli
di AnnaMaria "Lilla" Mariotti
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Oggi, e siamo nel 2004, è di moda portare un certo numero di persone più o meno note su un’isola deserta e lasciarle lì ad arrangiarsi a sopravvivere come meglio possono. E’ un gioco ad eliminazione : chi non ce la fa viene mandato via e l’ultimo rimasto vince un bel gruzzolo di denaro ed una certa fama. Questo gioco si chiama “L’Isola dei famosi”. Anche il guardiano del faro viene mandato su un’isola deserta ad arrangiarsi a sopravvivere come può, spesso con la sua famiglia, e sia pure con un aiuto che arriva dall’esterno, ma ci sono dei casi in cui l’aiuto non può arrivare a causa delle condizioni avverse del mare, ed ecco che allora l’uomo doveva usare tutta la sua inventiva per sopravvivere. Questo fatto si è verificato al faro situato sull’isola dei Cavoli, più uno scoglio che un’isola, situata lungo la costa Sud Orientale della Sardegna, al di sotto di Capo Carbonara, difficile da trovare persino sulle carte geografiche. Sulla cima più alta di quest’isola si trova un faro, una costruzione a due piani, a strisce bianche e nere, con al centro una torre alta 37 metri e mezzo, che però risulta a 74 metri sul livello del mare, N° 1262 dell’elenco dei fari italiani, messo lì per aiutare chi deve doppiare Capo Carbonara ed ora uno dei pochi fari italiani dato in concessione d’uso ad una Università. Intorno al 1930 era guardiano di quel faro un signore che faceva di cognome Carta, nessuno si ricorda più come faceva di nome, che viveva lì con la moglie ed i tre figli. La loro vita pare che scorresse serena, nonostante gli inevitabili disagi dovuti alla posizione dell’isolotto, ma gli aiuti arrivavano regolarmente e se qualche volta tardavano a causa del mare mosso, poi tutto si aggiustava. Ma una volta ebbero un’avventura che nessuno della famiglia ha mai scordato, al punto che una delle figlie, sposatasi in seguito con un marinaio ed andata a vivere a Genova, benché in una città di mare, del mare non ha mai non ha mai più voluto neanche sentire parlare. Un giorno, d’inverno, il tempo si era fatto brusco, si era levato un gran vento e il mare si era alzato di libeccio con una forza mai vista. La barca con i rifornimenti avrebbe dovuto arrivare a momenti, ma per quel giorno ed il giorno dopo non si vide, né nei giorni seguenti il tempo si aggiustò e la famiglia, a corto di provviste, cominciava a trovarsi in serie difficoltà. I genitori guardavano i bambini, allora ancora piccoli, che non resistevano ai morsi della fame e, vinti dalla disperazione, uscirono nella bufera per trovare qualcosa da mangiare. L’isola non offriva niente, solo macchia mediterranea, con tanti bei profumi, ma niente di commestibile, finché, nell’anfratto di una roccia, non trovarono un gabbiano morto, sbattuto contro le pietre dalla forza del vento. Cercarono ancora e ne trovarono altri, così i due tornarono al faro con le loro prede. La madre li spiumò ben bene, li fece a pezzi, li condì come poteva con quelle erbe raccolte sull’isola e li cucinò. Tanta era la fame della piccola famiglia che i gabbiani vennero mangiati come se fossero stati i più prelibati fagiani, ma nessuno di loro ne scordò mai più il sapore. La bufera finì come era cominciata, all’improvviso e arrivò la barca, la gente del faro era sopravissuta, nessuno diede mai loro un premio, ma la loro storia, per una serie di strani eventi, è arrivata fino a me perché potessi raccontarla.
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