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Racconto vincitore della 28ma edizione 2005 del Premio Letterario Internazionale "SANTA MARGHERITA LIGURE, FRANCO DELPINO - AMBIENTE" per la sezione NARRATIVA ed è stato pubblicato nel Maggio 2006 nella  raccolta antologica
"Ambiente e Civiltà".

L'ORO DI DRAGUT

di Annamaria "Lilla" Mariotti






Questa storia inizia molti secoli fa, quando i pirati barbareschi, o saraceni, come venivano chiamati, partendo dalla coste del Nord Africa e dalla Turchia imperversavano lungo tutte le coste del Mediterraneo, depredando e saccheggiando tutto quello che potevano e portando in schiavitù uomini, donne e bambini.   Queste razzie ebbero il loro culmine nel 1500 quando fece la sua apparizione il più feroce e crudele fra tutti i pirati, Dragut (o Torghud) Raiss Bassà, luogotenente dell’altrettanto tristemente noto Khair-ed-Sin, conosciuto in occidente come Barbarossa.
 


Tutto successe un giorno della primavera del 1557.  Dragut, già carico di tesori,  aveva messo a sacco Recco, un piccolo borgo sulla costa ligure  non distante da Genova, caricandosi di altro oro e di uomini, donne e bambini da vendere come schiavi a Tunisi, poi si era presentato con tutte le sue navi davanti a Camogli, un villaggio di pescatori poco distante.   Gli abitanti terrorizzati si erano riversati dentro il castello della Dragonara, l’unico loro rifugio, il ponte che  collegava il forte al resto del borgo fu sollevato, le armi furono caricate e tutti si prepararono ad una strenua, quanto inutile difesa.   Ma avvenne qualcosa di strano, il pirata, ebbro di bottino e di sangue, si allontanò senza sparare nemmeno un colpo, lasciando intatto il villaggio ed i suoi abitanti.  Tutti, increduli ma sollevati, tirarono un sospiro di sollievo e tornarono alle loro case.  Infatti non esistono tracce che Dragut abbia mai espugnato Camogli, l’unica cittadina ligure ad essere stata risparmiata.  Si dice che gli scogli che si trovano davanti al porto, che hanno nomi suggestivi come “i due fratelli”  o “inferno” fossero un deterrente sufficiente a tenere lontane le navi dei pirati, che non amavano rischiare un naufragio.


Intanto si era fatta notte e Dragut diede ordine ai suoi
sciabecchi di rientrare a Tunisi con una parte dell’oro e con i prigionieri,  mentre lui, con la nave ammiraglia carica di sacchi d’oro e di oggetti preziosi,  veleggiava verso Est lungo la costa del monte di Portofino con pochi uomini in cerca di un nascondiglio sicuro per la sua preda, che avrebbe poi recuperato in un secondo tempo senza doverla dividere con nessuno. Conosceva quella zona, perché nel 1549, dopo aver assalito Rapallo,  si era fermato  a San Fruttuoso per rifornirsi d’acqua.  Passata Punta Chiappa, Dragut, in piedi sul ponte di comando, avvistò una piccola cala, profonda e stretta, che pensò potesse fare al caso suo. Così ordinò agli uomini di dare fondo e di mettere in mare una scialuppa sulla quale fece caricare sacchi e sacchi di bottino e, con la sola compagnia di Salim, il suo fedele servitore sordomuto, si diresse verso terra.   La riva era scoscesa e piena di rocce, ma riuscirono ad avvicinarsi e ad ancorare la barca.  Dragut scese a terra da solo e si mise a cercare un luogo adatto in cui celare il suo tesoro.  In fondo alla cala, quasi nascosta dietro ad una roccia trovò una piccola grotta, un ingresso stretto che permetteva l’entrata ad un solo uomo, ma abbastanza grande e profonda all’interno da contenere tutti i suoi sacchi.   Fece un segnale con la lanterna a Salim che cominciò a scaricare e dopo qualche ora tutto era sistemato.  Ora bisognava nascondere la grotta, Dragut si guardò in giro e vide che sopra l’ingresso sporgeva un piccolo pino in equilibrio precario sulla poca terra in cui affondavano le radici.   Il pirata, con l’aiuto di una corda,  riuscì ad afferrarlo e a tirarlo giù.  Il tronco e la terra caduta con lui furono sufficienti a nascondere il tutto.   Tornato sulla lancia Dragut fece cenno a Salim di remare verso la nave, ma quando arrivarono e l’uomo si sporse per raggiungere la cima che pendeva dal bordo dello sciabecco per attraccare, il feroce pirata estrasse velocemente un coltello e lo lanciò colpendolo alle spalle.  Il povero Salim cadde in mare senza un gemito, così Dragut salì a bordo dicendo che il suo servo  era morto cadendo su una roccia nella piccola cala.  Poi, date le istruzioni ai suoi uomini di veleggiare verso Tunisi, se ne andò a dormire tranquillo nella sua cabina.

Anche Dragut, così feroce e crudele, doveva passare i guai suoi.  Era nato in un villaggio turco e giovanissimo era stato portato al Cairo, poi ad Alessandria da dove aveva iniziato a percorrere i mari.  Era un abilissimo marinaio e già proprietario di una sua nave quando Barbarossa lo prese come suo luogotenente, insieme compirono molte malvagie imprese e sempre con lui, nel 1538, combatté anche contro Andrea Doria.  L’imperatore Carlo V decise di porre fine a quelle scorrerie e diede ordine di catturarlo.  L’impresa riuscì nel 1540 a Giannettino Doria che lo catturò in Corsica e lo tenne  incatenato alla panca di una galea genovese per quattro anni, ed è qui che lo riconobbe  Jean Ponsot de La Vallette, un condottiero, Maestro dei Cavalieri dell’Ordine di Malta, che avrebbe poi fondato la capitale dell’isola di Malta dandogli il suo nome.  Questo signore gli aveva infatti rivolto qualche parola che voleva essere di incoraggiamento,  data la sua penosa situazione, ma per le quali il pirata si era sentito offeso. In seguito Dragut  venne venduto come schiavo ad un mercante di Genova, membro della famiglia dei Lomellini, dove rimase per poco tempo.   Ci si chiede come mai non sia stato giustiziato, ma forse è stato   per paura di rappresaglie nei confronti dei prigionieri cristiani in mano ai barbareschi.

Nel 1544 il pirata Barbarossa riuscì a riscattarlo con il pagamento di 3000 fiorini e la cessione dell’Isola di Tabarka, ma in cambio fece però promettere a Dragut di non attaccare più le navi cristiane, in base agli accordi allora vigenti con la Serenissima Repubblica di Venezia, che si era addirittura rivolta al Sultano Solimano II, detto Il Magnifico, per far rispettare i patti.  Dragut non era tipo da mantenere le promesse, e si era invece alleato con un altro corsaro,  Euldj Ali,  per costituire una gigantesca flotta e combattere ancora contro i Doria e le navi cristiane.  Nel frattempo aveva assunto l’appellativo di “spada vendicatrice dell’Islam”.  Alla morte di Barbarossa nel 1546 Dragut fu messo al comando della flotta turca, ma questo non gli bastava, conquistò la Tunisia e continuò a mettere a ferro e fuoco tutte le coste Italiane, da Nord a Sud, fino in Adriatico.  Inoltre aveva creato anche un piccolo impero a terra, nel 1556 era stato nominato Governatore e Pascià di Tripoli, e aveva posto la sua base a Djerba. Anche questo gli diede la possibilità di depredare e razziare, a terra invece che in mare, dove comunque continuò le sua imprese, dando preferibilmente la caccia alle navi dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, forse in ricordo del suo incontro con Monsieur de La Vallette.  Queste navi di solito non venivano attaccate dai pirati saraceni.

Ma anche i feroci pirati non sono immortali e Dragut incontrò il suo destino a Malta, dove nel 1565, durante l’assedio al forte di Sant’Elmo che si trova all’ingresso del porto,  fu trafitto a morte  da una grossa  scheggia di roccia che era stata colpita da una cannonata ed era rimbalzata verso di lui come un proiettile, colpendolo alla fronte.  Ironia della sorte, il pirata non era morto combattendo, con la spada in pugno, sulla tolda della sua nave, ma era stato ucciso da una pietra rimbalzata in seguito ad una cannonata sparata da uno dei suoi uomini.  C’è una giustizia, dopotutto.

E questa fu la fine del feroce pirata Dragut, terrore del Mediterraneo che non tornò mai a cercare il tesoro che aveva nascosto vicino a Punta Chiappa, forse se ne era dimenticato, tesori ne aveva raccolti tanti, o forse  pensava che aveva tutto il tempo del mondo per recuperarlo.  Intanto, chissà perché, quella piccola insenatura ai piedi del Monte di Portofino, circondata dal mare e dai pini,  venne chiama dalla gente del posto “Cala dell’Oro”.

Passarono molti secoli e in una radiosa mattina d’estate poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando la gente ricominciava a sorridere dopo tanti anni di sofferenze e privazioni, due baldi giovani di Camogli partirono in sandolino per fare il bagno a Punta Chiappa, ma quando arrivarono erano ancora così pieni di energie, che decisero di arrivare fino alla Cala dell’Oro.  Qui arrivati, fecero un bel bagno nelle acque cristalline, poi salirono su uno scoglio al sole per asciugarsi.  Mentre si beavano di quella splendida giornata uno dei due disse : “E se cercassimo il tesoro ?”.  E’ una diceria locale, che viene raccontata a tutti i bambini di Camogli, che quella caletta prende il suo nome dal fatto che nell’antichità i pirati avessero l’abitudine di nascondervi i loro tesori, ma di quali pirati e di quali tesori si trattasse nessuno lo sapeva. I due ragazzi saltarono su immediatamente come due molle e cominciarono a setacciare il terreno fra le rocce per cercare anche la minima a traccia che li guidasse a quel fantomatico tesoro, assai poco convinti di trovare qualcosa, più che altro per gioco.  Ad un certo punto, quando stavano quasi per rinunciare, uno dei due notò il vecchio tronco rinsecchito di uno dei pini di mare che crescono sul Monte di Portofino che si era inserito tra due rocce, proprio in fondo alla cala, e sopra di esso si intravedeva un’apertura.  I due ragazzi si misero all’opera e riuscirono a spostare il tronco, che trascinò con sé la poca terra rimasta, rivelando l’ingresso di una grotta.  Naturalmente gli intrepidi esploratori entrarono e alla fioca luce che penetrava all’interno videro che  qualcosa stava appoggiata alle pareti, sembravano sacchi.  Si avvicinarono, ne toccarono uno che si aprì, rovesciando ai loro piedi una cascata di monete d’oro.  Abituatisi alla fioca luce che penetrava dall’esterno si fecero coraggio e tastarono anche gli altri sacchi, ormai vetusti, che lasciavano intravedere al loro interno tesori di inestimabile valore.

 
 
                                            CALA DELL'ORO DALL'ALTO



Gli amici corsero fuori, riuscirono a ricoprire l’ingresso della grotta usando il vecchio tronco, e decisero di tornare durante la notte con una barca più grossa e con altri due amici.   E così fecero.  Calata la calda notte estiva, un po’ nuvolosa, ma illuminata da una falce di luna che ogni tanto faceva capolino, un gozzo a remi con quattro ragazzi a bordo, muniti di torce, di lanterne e di una certa quantità di sacchi nuovi,  lasciò il porticciolo di Camogli e di buona lena, remando a turno, i baldi giovani raggiunsero in breve tempo la Cala dell’Oro.  Improvvisamente, appena prima di arrivare nella piccola baia, l’incerta luce della luna illuminò un veliero ormeggiato all’ingresso della cala, non era molto grande, i ragazzi intravidero le vele latine e pensarono che somigliava ad uno sciabecco arabo.   I quattro posarono i remi, calarono silenziosamente una piccola ancora, poi scesero in acqua senza far rumore, costeggiando a nuoto la riva, e si nascosero dietro ad uno scoglio per vedere cosa stava succedendo.  Aguzzando la vista in quella notte lattiginosa, con quella poca luna, riuscirono a vedere una sagoma bianca, una barca, che da terra si dirigeva verso il veliero. Sulla prua troneggiava una figura d’uomo alto, probabilmente dalla pelle scura perché non si riusciva a vedere il viso,  sembrava che indossasse un ricco mantello ed un turbante e  dal suo fianco pendeva un’arma ricurva, una scimitarra forse ?.  Sul sedile centrale una indistinta figura curva  era  intenta a remare, e sembrava che anche lui indossasse un turbante.   Tutto era avvolto da una luce incerta che trapelava tra le nuvole, ma ebbero la sensazione che la scialuppa fosse carica, perché l’acqua arrivava quasi al bordo e quando raggiunse lo sciabecco alcuni uomini si sporsero dal bordo e sembrò che caricassero qualcosa,  poi anche la sagoma bianca della scialuppa sparì a bordo. Videro degli uomini intenti ad alzare le vele, e l’imbarcazione partì dirigendosi verso il largo, ma fatte poche decine di metri, sembrò dissolversi nell’aria.

I quattro amici erano rimasti in silenzio per tutta la durata dell’apparizione, ma a quel punto nuotarono verso il gozzo, salirono a bordo,  remarono verso la  Cala, scesero a terra e corsero verso il punto in cui si trovava la grotta.   Il tronco era stato rimosso, la grotta era aperta e quando i ragazzi entrarono con le loro torce  e le loro lanterne la trovarono vuota.  Storditi per quello che credevano di avere visto i quattro risalirono sul gozzo in silenzio e tornarono alle loro case, remando senza dire una parola, ma prima giurarono di non raccontare mai a nessuno la loro avventura di quella notte misteriosa.

 Ma dentro di loro non potevano non chiedersi se non  avevano assistito qualcosa di straordinario, al ritorno del feroce e sanguinario pirata Dragut tornato a  recuperare il suo tesoro dimenticato.



 




 
 
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